04 novembre 2024

La Comunicazione Nonviolenta (CNV)

La Comunicazione Nonviolenta (CNV) o linguaggio giraffa: un Approccio Empatico alle Relazioni

“Lo scopo della comunicazione Nonviolenta non è di ottenere quello che vogliamo ma di ottenere una relazione all’umano che permetterà a ciascuno di vedere i propri bisogni soddisfatti. Si tratta semplicemente di questo.”Marshall B. Rosenberg

Le emozioni sono tutte utili. Forniscono un primo feedback e un aiuto riguardo al nostro rapporto con l'ambiente rispetto ai nostri obiettivi. Ci indicano se è necessario apportare dei cambiamenti o se è opportuno perseverare nella stessa direzione.La rabbia, per esempio, è una delle emozioni fondamentali che abbiamo per natura, e serve a permettere all'individuo di adattarsi e sopravvivere nel proprio ambiente. Nonostante sia spesso vista in modo negativo, essa riveste un ruolo fondamentale nella vita di ognuno. Funziona come un "segnale di allerta" che indica la possibile presenza di un pericolo o di un ostacolo al raggiungimento di specifici obiettivi. Viene attivata dalla percezione di una minaccia o dalla violazione di un nostro diritto.

Questa emozione spinge a difendersi, crea una distanza tra noi e chi percepiamo come “aggressore” e mette in evidenza quella che consideriamo un’ingiustizia. A livello fisico, la rabbia può manifestarsi con muscoli tesi, sensazione di esplosione e di perdita di controllo, volto arrossato, calore nel petto, nella testa o nelle mani, e una spinta verso l’azione o l’attacco.Questa emozione, tuttavia, può anche assumere connotazioni disfunzionali, in particolare quando causa sofferenza a livello personale o interpersonale, compromettendo gli scambi comunicativi, le relazioni sociali o inducendo comportamenti dannosi per sé stessi o per gli altri. Quando vediamo violato un nostro diritto, messo in pericolo il conseguimento di un nostro obiettivo, minacciato un nostro bisogno, possono subentrare frustrazione e rabbia che possono sfociare in atteggiamenti aggressivi e manifestazioni violente (psicologiche e fisiche).Come si può allora entrare in contatto con l’altro senza che la rabbia che sentiamo prenda il sopravvento e la conversazione assuma forme spiacevoli che, ahinoi, purtroppo alla fine non portano a nulla?
È necessario individuare strategie efficaci non solo per soddisfare i propri obiettivi e i propri bisogni, ma anche per far sì che, attraverso queste strategie, si possano soddisfare i bisogni di tutti gli interlocutori coinvolti, senza strascichi di incomprensioni e di malcontento, attraverso forme di comunicazione più efficaci e modalità relazionali empatiche.

La Comunicazione Nonviolenta, o linguaggio giraffa, messa a punto dallo psicologo Marshall Rosenberg, si fonda sulla convinzione che ogni persona ha il potenziale per manifestare compassione e che ricorre alla violenza, sia verbale che fisica, quando non riesce a identificare le strategie più efficaci per soddisfare i propri bisogni.
Di origine ebraica, Rosenberg, trasferito con la sua famiglia negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘40, provò sulla sua pelle le terribili esperienze del bullismo, della violenza razziale e dell’isolamento.
Egli fu un allievo eccellente dello psicologo umanista Carl Rogers, sviluppando un metodo che si focalizza su ciò che è veramente vitale in noi e negli altri, avvicinandosi così alla forma più autentica di “umanesimo” che la psicologia moderna abbia mai conosciuto.Rosenberg iniziò a lavorare tra gli anni ‘60 e ‘70, periodo di grandi cambiamenti a livello sociale. Nell’ambito delle sue ricerche sociali, divenne sempre più curioso di comprendere cosa spinge gli individui a scegliere di comportarsi in un modo, piuttosto che in un altro, in un mondo in cui abitualmente ci si sofferma solo sulla cosa giusta da fare, su chi ha torto e su chi ha ragione, in cui si attribuisce importanza a giudizi e valutazioni dei comportamenti senza occuparsi delle motivazioni per cui questi comportamenti vengono agiti. 

Un punto fondante per la Comunicazione Nonviolenta è infatti il portare l’attenzione sui bisogni che muovono le azioni, partendo dal presupposto che tutti i bisogni sono ugualmente importanti per la vita e sono condivisi da tutti gli esseri umani, a prescindere dal genere a cui si appartiene, dalla cultura, dalla religione, dal reddito, dall’età: bisogni fisiologici di aria, acqua, cibo, riposo, e bisogni psicologici di calore umano, di giustizia, di riconoscimento, di considerazione, di sostegno, di onestà, di pace…. Ciò che cambia è il modo che ognuno di noi ha per nutrire quei bisogni, la strategia utilizzata per soddisfarli. Culturalmente si tende a confondere il bisogno con la strategia. Si dice per esempio che si ha bisogno di un’auto nuova, ma in realtà l’acquisto dell’auto rappresenta una strategia per soddisfare un bisogno (di movimento, di riconoscimento, di status…).
Si condividono quindi gli stessi bisogni, universali, ma non i modi per soddisfarli, e spesso le strategie che due individui vogliono adottare per nutrire i propri bisogni sono in contrapposizione e non si riesce a trovare l’accordo, e nasce, appunto, il conflitto.
Rosenberg afferma che si può trovare l’accordo sui bisogni: nel dialogo, se l’attenzione viene portata prima sui bisogni, e solo successivamente sulle strategie per soddisfarli, sarà più probabile che troveremo delle strategie in grado di soddisfare i bisogni di tutti gli interlocutori.Per raggiungere questo obiettivo, secondo il modello di Comunicazione Nonviolenta di Rosenberg, è importante prima di tutto portare l’attenzione da fuori a dentro di noi, attraverso l'autoempatia o autoconnessione.

In Comunicazione Nonviolenta essere in empatia con se stessi significa essere in connessione con il nostro mondo interiore, per entrare in contatto con i sentimenti che stiamo provando in una certa situazione e con i bisogni che sono stati stimolati, che riteniamo violati, da quello che è accaduto fuori. Finché, infatti, l’attenzione è fuori di noi, focalizzata sul giudicare se il comportamento altrui sia giusto o sbagliato, sarà difficile che si possa essere consapevoli di ciò che viviamo dentro di noi.Passare dal fuori al dentro, portare l'attenzione dentro di noi, attraverso un processo di autoconnessione o autoempatia, porta ad una consapevolezza che permette di sentirsi più liberi nell’esprimere all’altro interlocutore, a cuore aperto, come ci si sente a fronte di una certa situazione, e quale bisogno è sotteso a quel sentimento, attraverso un processo di “espressione onesta”.
Una volta che si è entrati in contatto col proprio mondo interiore, che ci si è ascoltati, probabilmente il livello di tensione, di rabbia o di frustrazione si saranno un po’ affievoliti, e si avrà allora più attitudine all’ascolto dell’altro, facendo spazio dentro di noi anche ai suoi sentimenti e ai suoi bisogni, nella consapevolezza che anche l’altro sta cercando di fare la cosa migliore che può, anche se probabilmente non è la cosa migliore per noi. Questo processo rappresenta l'ascolto empatico.
Il fine della Comunicazione Nonviolenta è che si generi un dialogo empatico, la possibilità di comunicare onestamente gli uni con gli altri, in connessione con i propri sentimenti e con i propri bisogni, quindi con le motivazioni fondanti che portano a desiderare una certa cosa piuttosto che un’altra e che sono all’origine del conflitto. Solo dopo che si sarà riusciti ad attivare questa connessione empatica, ci si potrà occupare delle strategie, e sarà più facile riuscire a trovare strategie che vadano bene per tutti gli interlocutori.

Perché viene chiamato linguaggio Giraffa? La giraffa era uno dei pupazzi-marionette che Rosenberg utilizzava nei suoi seminari e conferenze, in giro per il mondo, per spiegare i metodi di comunicazione efficaci. Rosenberg scelse la giraffa perché ha un cuore grande, il più grande tra i mammiferi.
Il cuore grande è per sottolineare il piacere che si prova quando si usa la Comunicazione Nonviolenta, quando si sperimenta empatia, quando si dona dal cuore, il piacere di connettersi gli uni e gli altri attraverso il cuore.
La giraffa ha anche il collo lungo, che consente di guardare dall’alto, quindi di vedere lontano, quindi anche le conseguenze di un certo tipo di comunicazione rispetto ad un altro tipo di comunicazione, ma anche di poter vedere la motivazione originaria di quello che noi o l’altro stiamo facendo, quello che ha mosso entrambi gli interlocutori.La giraffa è anche un animale molto forte: un calcio sferrato da una giraffa è in grado di ferire gravemente o persino uccidere un leone, ma la giraffa si serve di questa forza solo per proteggersi. Ciò sta a significare che questa connessione con il cuore ci può rendere molto forti, una forza che non usiamo sugli altri, non usiamo nell’offesa, ma la utilizziamo come forza di protezione quando serve.

Rosenberg, per sottolineare il contrasto tra una modalità comunicativa efficace e una meno, mostrava ai suoi seminari anche una marionetta con le sembianze dello “sciacallo”, in quanto uno dei mammiferi più spietati e feroci. Il linguaggio sciacallo rappresenta il nostro modo abituale di comunicare, che abbiamo dentro tutti, e che corrisponde a quello che in qualche modo apprendiamo attraverso la cultura, la famiglia, la società, e che dalla società odierna viene rinforzato.
Scopo della Comunicazione Nonviolenta è imparare a spostarsi dal linguaggio sciacallo, quello abituale, al linguaggio giraffa, attraverso una struttura comunicativa che può sostenerci nelle situazioni in cui siamo in dialogo con l’altro. Tale struttura comunicativa, che rappresenta il nucleo fondante della Comunicazione Nonviolenta, è caratterizzata da quattro tappe o passi principali: 

1) Osservazioni: osserviamo che cosa sta realmente accadendo in una determinata situazione, facendo riferimento a quello che oggettivamente possiamo osservare, senza introdurre giudizi o valutazioni, che rischiano di essere interpretati come giudizi sull’altro interlocutore, cosa che può innescare atteggiamenti di autodifesa o di contrattacco.Abitualmente noi mescoliamo infatti i fatti con le interpretazioni. Atteniamoci quindi a descrivere ciò che vediamo in una determinata situazione: “Vedo che…” 

2) Sentimenti: fermiamoci a capire cosa proviamo in quella determinata situazione: mi sento irritato? Triste? Frustrato? Impariamo quindi ad esplicitarlo: “Quando vedo questo, mi sento così…” senza attribuire agli altri la responsabilità dei nostri sentimenti, motivando in loro il senso di colpa: “Quando fai così, mi fai sentire…”. Partiamo anche dal presupposto che come ci sentiamo noi non è esattamente come si sente l’altro, perché i sentimenti non dipendono da ciò che accade, ma dai bisogni che sono vivi in noi, che sono quelli che sono vivi in quel momento, in quella situazione. 

3) Bisogni: cosa ci crea disagio in quella situazione? Quale desiderio, valore, aspettativa, bisogno vedo non soddisfatto? “Quando vedo questo, mi sento …, perché ho bisogno di …”. Purtroppo non siamo abituati a soffermarci ad analizzare i nostri bisogni, ma siamo più propensi a domandarci cosa gli altri facciano di sbagliato quando i nostri bisogni non trovano soddisfazione.

4) Richieste: a fronte di quel sentimento che proviamo, di quel bisogno che sentiamo non soddisfatto, cosa vorremmo? Cosa potrebbe nutrire quel bisogno che abbiamo individuato? È importante, pertanto, avanzare una richiesta concreta, chiara ed esplicita, in termini di disponibilità dell’altro, non di pretesa: “Sei disponibile a ...?”. Una pretesa, infatti, che sia implicita od esplicita, può far sentire il nostro interlocutore minacciato di venire incolpato o punito se quanto richiesto non verrà eseguito.Nell’eventualità, poi, che l’altro dovesse negare la sua disponibilità, è importante che venga tenuto in considerazione che abbia, a sua volta, dei suoi bisogni che non sono ancora stati nominati, e che può avere senso andare a vedere.Ecco che allora è importante dare anche all’altro la possibilità di esprimere egli/ella stesso/a i suoi sentimenti, i suoi bisogni e le sue richieste. Solo in tal modo, attraverso una reciproca disponibilità all’ascolto, dopo essere entrati in connessione con i rispettivi mondi interiori, e con quelli del nostro interlocutore, entrambi portatori di sentimenti e di bisogni che meritano di essere presi e tenuti in considerazione, si potrà cercare un accordo sulle strategie per soddisfare i bisogni di ciascuno, in modo tale che tutti i bisogni vengano considerati ugualmente rilevanti. 

Nel momento in cui le cose vengono eseguite senza che ci siano stati questi passaggi, di autoempatia, di reciproco ascolto empatico e di espressione autentica ed onesta, perché magari non si nutre fiducia nel fatto che le nostre motivazioni e i nostri bisogni possano venire accolti, succede che prima o poi la relazione ne subirà le conseguenze, e, prima o dopo, potrà andare incontro ad incomprensioni cronicizzate, ad esplosioni apparentemente incomprensibili ma dietro cui sono celate frustrazione e risentimento.


Lo scopo della Comunicazione Nonviolenta non è quello di non fare sorgere i conflitti, che fanno parte della vita, in quanto i sentimenti e i bisogni di ciascuno sono inevitabilmente discordanti. Essa può rappresentare una bussola per orientarci nella connessione con i sentimenti e con i bisogni, nostri e altrui, che motivano gli agiti comportamentali. 
La si può vedere come un atteggiamento mentale al servizio della relazione, con il fine di fornire uno strumento per imparare ad occuparci del conflitto, senza ignorarlo, prima che diventi troppo doloroso, prima che scoppi una guerra, mettendo in atto capacità di dialogo per cercare di comprendersi reciprocamente fino in fondo.