04 giugno 2020
Essere genitori ai tempi del Coronavirus
Questa piccola rubrica intitolata “Essere genitore al tempo del Coronavirus” nasce come strumento di riflessione e di condivisione per le famiglie che stanno affrontando insieme ai loro bambini un momento storico di grandi cambiamenti e complessità.
La rubrica si articolerà in tre uscite che spazieranno da un approfondimento psicologico su ciò che stanno vivendo i genitori e di conseguenza i bambini, per poi entrare maggiormente nello specifico andando a riflettere sul cambiamento che sta subendo la nostra concezione del Tempo (come genitori e nel nostro rapporto con i bambini; tempo a casa, il tempo del rientro al lavoro…) e del Rischio.
Gli articoli sono a cura della Prof.ssa Paola Fausta Maria Molina, docente ordinaria di psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università di Torino, che in seguito alla nostra richiesta e ad un confronto sulle tematiche da affrontare ha gentilmente accettato di darci il suo prezioso contributo.
Una delle domande che i genitori si fanno in questo periodo riguarda l’effetto che l’esperienza della pandemia, del lockdown, del rimanere a casa avrà su di loro, ma soprattutto sui loro bambini/e
- Ci sarà un effetto della mia paura per la situazione?
- Ci sarà un effetto dello stare a casa per tanto tempo, spesso in una situazione un po’ tesa?
- Ci sarà un effetto sul suo modo di interagire con gli altri e con il mondo?
Per alcune di queste domande vi propongo le riflessioni di una persona saggia, che ha vissuto esperienze traumatiche e che è l’ideatore del concetto di «resilienza», Boris Cyrulnik.
QUESTA ESPERIENZA LASCERÀ DELLE TRACCE NEL MIO BAMBINO?
Sappiamo dalla ricerca che esperienze traumatiche in età infantile modificano il sistema nervoso centrale, e le modifiche possono perdurare nello sviluppo. Questo però avviene solo in caso di situazioni stressanti molto gravi e continuative nel tempo, come possono essere dei maltrattamenti o degli abusi in famiglia.
Quindi: I bambini che avranno tracce cerebrali saranno quelli maltrattati durante l’isolamento o che saranno rimasti isolati [senza stimoli e rapporti però!] troppo a lungo. Ma in generale è proprio la plasticità del cervello infantile, il cambiamento rapido dei primi anni di vita che rende i bambini più adattabili, fa sì che recuperino più rapidamente:
Anche se per i genitori non è sempre facile, i bambini hanno voglia di vivere, si muovono, ed è un buon segno! Anzi, questa può diventare un’occasione di riscoprire il piacere di tornare a scuola, di ritrovare i compagni. Diverso è il discorso sulla memoria, sul ricordo, e sulle abitudini acquisite nei primi anni. I bambini vivranno di riflesso la paura degli adulti, e il loro ricordo dipenderà dal modo in cui gli adulti racconteranno loro ciò che accade: se non ne parliamo, lo dimenticheranno consapevolmente, ma manterranno un ricordo anche non consapevole della paura percepita; se siamo invasi dall’angoscia, se diventa il solo argomento di conversazione, i bambini percepiranno questa angoscia e la manterranno nel ricordo.La sola soluzione, è di dir loro che il pericolo c’è, ma che c’è anche il modo di affrontarlo – rispettare i gesti e le distanze sicure. Se diamo una prospettiva ai bambini, possono affrontare la prova. I bambini confidano completamente negli adulti che si occupano di loro, sanno che possono rivolgersi a loro per essere protetti: gli adulti devono poter spiegare che il problema c’è, ma si può affrontare.
La sicurezza dell’adulto, anche quando esprime la sua ragionevole paura, è la base della sicurezza del bambino: i grandi non sono sopraffatti dall’angoscia, la affrontano e li proteggeranno.
C’è però un aspetto importante che dobbiamo avere presente: ciò di cui facciamo esperienza ripetuta nell’infanzia (i primi luoghi, i primi cibi, le prime musiche o immagini…) hanno un effetto duraturo su ciò che consideriamo bello, buono, piacevole … Sono un ancoraggio rispetto alle esperienze successive, gli psicologi dicono che hanno un effetto di «imprinting» (Lorenz, 1937).
Molto precocemente i bambini diventano consapevoli di quale è l’aspetto giusto delle cose: lo capiamo quando a un anno e mezzo indicano il pezzo mancante della bambola o la polvere sul pavimento (tecnicamente chiamiamo questo sensibilità allo standard: Kagan, 1981).
Finora il mondo sociale dei bambini piccoli era un mondo in cui gli adulti che incontravano, anche non così familiari, sorridevano, si avvicinavano a loro, gli facevano le coccole (a volte anche un po’ intrusive), li pacioccavano… Oggi il mondo standard sarà composto di adulti con la mascherina, che si tengono a distanza, che non li toccano… E indossare la mascherina per uscire sarà lo standard? Al punto, come vediamo in qualche video che ci arriva dalla Cina, da piangere se viene tolta?Non è l’aspetto fisico che ci preoccupa, ma il timore che la distanza fisica dagli altri che la pandemia impone possa diventare un vero e proprio distanziamento sociale (termine quanto mai usato impropriamente che è entrato purtroppo nel linguaggio quotidiano): a questa distinzione dobbiamo proprio fare attenzione!
Nella nostra società, siamo abituati a considerare espressione emotiva solo la mimica del volto: è una delle modalità di comunicare le emozioni più esplicita, e anche più chiara da leggere. Per questo la mascherina ci spaventa tanto. Ma il nostro corpo tutto intero esprime le emozioni.
Pensiamo soltanto all’esperienza di prendere in braccio un bebè: se si plasma e si rilassa contro di noi è ben diverso da quando mantiene le distanze, irrigidendosi e proprio cercando di distanziarsi per quanto può! Quindi le espressioni emotive positive e negative saranno comprensibili anche in presenza di una mascherina (quando necessaria), e non sarà questo (quando necessario) che ci impedirà di comunicare o al bambino di capire cosa vogliamo comunicargli. È compito degli adulti offrire un’esperienza di sicurezza e tranquillità, di affetto o accoglienza, pur nella limitazione imposta dalla mascherina o dalla distanza.
Bibliografia:
Kagan, J. (1981). The Second Year: The Emergence of Self-awareness. Harvard University Press.
Lorenz, K. (1937). Über die Bildung des Instinktbegriffes. Naturwissenschaften, 25(19), 289–300.